LABIRINTI COSMICI

di Mario Farneti

da Antarès  n. 12, 2017

 

“Confusione… Confusione… mi dispiace se sei figlia della solita illusione e se fai confusione… Confusione… Tu vorresti imbalsamare anche l’ultima e più piccola emozione… Confusione…”

Il fading fa svanire le ultime parole della canzone di Lucio Battisti e dall’altoparlante del radioricevitore UHF dell’astronave emerge prepotente il rumore di fondo, uno scroscio asemico dal quale qualche scienziato paranoico aveva invano cercato di discernere il messaggio intelligente di qualche specie aliena. Tuttavia nessun alieno aveva mai pensato di inquinare la purezza dell’etere con un segnale spurio che con la sua consistenza creasse distonia nell’ineffabile, intelligente cristallinità dell’Universo.

E’ l’anno 80 dalla Fondazione dell’Impero, mi chiamo Lucio Nevio Mandelli, capitano di vascello dell’Armata Spaziale d’Occidente, secondo in comando dell’astronave fotonica Ultima Spes che ha superato il confine del Sistema Solare procedendo a una velocità di centocinquantamila chilometri al secondo e, attraversata la Fascia di Kuiper, ha raggiunto le propaggini della Nube di Oort, generatrice di comete. Abbiamo intrapreso un viaggio verso un mondo nuovo o, forse, un Nuovo Mondo.

Alcuni anni prima la sonda automatica Spes Prima ci aveva preceduto in quel quadrante della Galassia con un viaggio di esplorazione all’interno di una singolarità e, con grande sorpresa, era ritornata sulla Terra appena un mese dopo il suo lancio, riportandoci una mappa dell’universo esplorato che destò l’interesse degli scienziati. Il disegno emerso era quello di un labirinto cosmico cui si accedeva attraverso una serie continua e uniforme di singolarità.

Sembrava che tutto fosse regolato da una logica cui la sonda non riuscì a sfuggire e che la riportò in maniera del tutto inattesa nel luogo di origine. Era come l’invito di un’intelligenza aliena a percorrere le vie di un labirinto regolato da una legge universale che con quel fatto aveva voluto dare testimonianza di esistere.

Era davvero una legge universale o solo un tentativo di confondere i sensi di una specie involuta come quella umana? A noi era toccato verificare se la serie di singolarità costituiva l’atto volontario di una mente intelligente, oppure se era frutto di casualità. La nostra poteva essere una missione senza speranza di ritorno, non soltanto a casa ma nelle nostre menti, nella nostra esistenza. Rischiavamo di perderci per sempre in un limbo privo di dimensioni e di ragione, noi che pretendevamo di spiegare ogni cosa con il calcolo e con la ragione.

Il “buco neroè davanti a noi, nei pressi della Madre di tutte le comete, nel quadrante della Galassia segnalato dalla sonda. L’astronave riduce la velocità fino ad azzerarla a una distanza di mezzo milione di chilometri. L’elaboratore di bordo ne misura il diametro: appena diecimila chilometri. Entriamo in una posizione di stallo. Basterebbe un piccolo balzo in avanti per essere risucchiati da quel nulla che attrae dentro di sé ogni brandello di materia, finanche la luce; seducente come una sirena muta che, tuttavia, cattura con la sua fascinazione ogni essenza che si avvicini a lei. Ci stritolerà? Non lo sappiamo. Sappiamo soltanto che la sonda Spes Prima l’ha attraversato e ne ha fatto ritorno, intatta, sulla Terra, ma non conosciamo quale sarà l’effetto sugli esseri viventi.

Naomi Eshel, colonnello della Heyl Ha'Avir del Grande Israele, comandante della missione ordina a Steve Collins l’ufficiale di rotta dell’Armata Spaziale USEast d’inserire i dati registrati anni prima dalla sonda. Qualche minuto, poi il pilota Ivan Karpov della Federazione Russa Occidentale inizia la sequenza di avvio dei motori fotonici a raggi laser.

In quegli attimi d’incertezza, ripenso all’incontro con l’Imperatore, avvenuto poco prima della partenza per la missione. Il sovrano mi aveva ricevuto in udienza privata a Roma sul Palatino e si era congratulato con me per essermi offerto volontario. Era fiero che un militare di alto grado dell’Impero d’Occidente partecipasse a una ricerca ritenuta dalla scienza ufficiale “di confine”. Fu in quell’occasione che conobbi Edward Lattanzi, l’astrofisico che avrebbe fatto parte dell’equipaggio. Era un italo-americano di trentacinque anni, laureato al MIT ma perfezionatosi al Dipartimento di Astrofisica dell’Università “Roma Imperiale”.

«Motori allineati» sentenzia Karpov. «Siamo pronti al balzo. »

Helen attiva il conto alla rovescia fissandolo a meno dieci secondi. Il lettore numerico inizia la sequenza e, giunto a zero, sfrecciamo verso il buco nero entrando sull’orizzonte degli eventi dopo tre secondi e trecentotrentatré millesimi.

All’improvviso il buio s’impossessa di ogni cosa, ma per pochi millesimi di secondo o forse per milioni di anni, concentrati in un non-tempo. Neanche un respiro e veniamo proiettati in un altro universo… o almeno è quello che crediamo in quei primi attimi di smarrimento. L’elaboratore di bordo stabilisce la posizione: cinquantamila chilometri dal pianeta Terra in allontanamento. Calcoliamo il punto d’ingresso ed esso combina esattamente con il centro della Calotta Polare… il Polo Nord, ma  nel punto dell’universo dove la Terra si trovava settanta milioni di anni prima della data di partenza.

Il dato appare incredibile perciò lo confrontiamo con quelli raccolti dalla sonda Spes Prima. Ci accorgiamo che i dati originari si sono misteriosamente modificati aderendo alla perfezione a questa nuova realtà.

Il comandante ordina l’inversione di rotta verso “quella” Terra per indagare sul paradosso di cui siamo testimoni. Tale almeno ci appare all’inizio. Entriamo in orbita intorno al pianeta e attiviamo le telecamere di ricognizione. L’elaboratore di bordo opera un raffronto tra la massa continentale di allora e quella attuale, ma conclude che non c’è alcun rapporto. L’estensione delle terre emerse differisce del tutto dall’attuale e non è possibile eseguire alcuna proiezione che riconduca a quella forma. Poi l’ufficiale di rotta rileva un segnale radio proveniente da un’isola sperduta in un immenso oceano, molto simile a quello di un radiofaro. Ha origine da una struttura simmetrica, un evidente manufatto umano; un manufatto all’epoca dei dinosauri! E’ un edificio a pianta ottagonale al centro di una vasta radura che emerge dalla jungla. La sua estensione supera quella di una media metropoli del mondo occidentale. E’ costituito da una sequenza di costruzioni senza soluzione di continuità geometricamente giustapposte.

Poi la telecamera individua la presenza di uomini. Uomini come noi, nati settanta milioni di anni dopo. La scoperta capovolge la nostra visione del mondo. Infine la cosa più sconvolgente: le telecamere di bordo scandagliano lo spazio intorno alla Terra, inutilmente alla ricerca della Luna. Lo spazio in prossimità della Terra è vuoto. La teoria che voleva la Luna nata dalla Terra è perciò priva di fondamento. Cerchiamo di metterci in contatto radio con gli abitanti di quella strana costruzione, ma le gamme di frequenza sono pulite, tranne quell’unico segnale radio, finché un raggio laser a bassa potenza esce dal centro della struttura e inquadra l’astronave per una frazione di secondo. Poi più nulla. In quell’istante l’elaboratore di bordo segnala un messaggio in ingresso che decodifica e diffonde attraverso l’altoparlante: è musica. Una musica ineffabile che supera qualsiasi intuizione umana, poi all’improvviso avvistiamo un vascello spaziale – o almeno tale appare ai nostri occhi – di una forma che dapprima scambiamo per una farfalla, ma poi ci accorgiamo essere una labrys, la scure bipenne. Mi torna in mente il palazzo di Cnosso a Creta, chiamato dagli storici il palazzo delle labrys, cioè il labirinto. Il vascello spaziale si ferma a cinquecento chilometri da noi e diventa incandescente, poi le due lame iniziano a roteare creando una forma circolare che, al culmine dell’incandescenza diventa oscura formando un nuovo buco nero sempre più grande e potente, tanto da tirarci dentro in una frazione di secondo. Riemergiamo ancora dal Polo Nord nei pressi della Terra, stavolta però in un’epoca più recente: trenta milioni di anni prima della nostra era.

Invertiamo la rotta e ed entriamo in orbita intorno al nostro pianeta. Ci troviamo al centro di un paradosso inestricabile, a ogni passaggio riemergiamo sempre dalla Terra come se fosse il centro di un labirinto spaziale dal quale non si può sfuggire. I dati ricevuti dalle telecamere di ricognizione sono ancora una volta sbalorditivi. A duecentomila chilometri dalla nostra posizione una semisfera occupa la posizione della Luna. I sensori la identificano come una struttura metallica di una lega sconosciuta. Intorno al grande impianto si avvicendano astronavi di forma oblunga, provenienti dalla Terra che sembrano trasportarvi materiali e uomini. Ci avviciniamo fino a cinquantamila chilometri di distanza ma in quell’istante veniamo circondati da una flottiglia di aeronavi discoidali. Operiamo una manovra di sganciamento e, grazie ai potenti motori fotonici, raggiungiamo in pochi secondi una distanza di seicentomila chilometri.

Chiedo una spiegazione a Edward ma la risposta è laconica: «Non c’è dubbio che la Luna sia un corpo artificiale, costruito in orbita da una civiltà umana ben più evoluta della nostra attuale. La nostra Luna è il rudere di una costruzione ardita ideata da mente umana.»

La mia incredulità è vinta solo dall’evidenza.

«Quello che dici ha dell’incredibile ma qual è lo scopo di questa opera gigantesca?»

«Sembra un’astronave destinata a trasportare nello spazio milioni di esseri umani. Potrebbe trattarsi della migrazione di un’intera civiltà verso un altro pianeta», afferma Edward.

«Una migrazione fallita», rispondo io, «poiché la Luna non si è mai mossa dall’orbita terrestre…»

«Sempre che questa sia la nostra Luna…»

«Vuoi dire che questa civiltà è specializzata nella costruzione di… lune?»

«Non posso escluderlo…»

In quell’attimo un allarme risuona nella cabina di comando. Poco distante da noi appare ancora una volta un’enorme labrys che inizia anch’essa a roteare fino a diventare incandescente e a collassare in un buco nero. Ancora una volta, veniamo attratti all’interno e riemergiamo dal Polo Nord. Sotto di noi la Terra ha un’atmosfera densa e giallastra. L’elaboratore di bordo sentenzia che ci troviamo a meno dieci milioni di anni dalla nostra era. Tutti i vulcani della Terra sono in eruzione e una nebbia pesante oscura i continenti.

Puntiamo le telecamere verso la Luna ma i dati ricevuti ci dicono che quella non è la stessa Luna di venti milioni di anni prima.

«E’ come sospettavo», dice Lattanzi. «La prima Luna era un’astronave che ha lasciato l’orbita terrestre, trasferendo milioni di coloni su un altro pianeta, forse attraverso lo stesso passaggio usato da noi per giungere sin qui. Questa invece è una nuova struttura, differente dall’altra. Infatti, ha un diametro più piccolo benché l’orbita sia la stessa.»

Ci avviciniamo al corpo celeste.  Dalla superficie si elevano guglie alte cento chilometri e più, così numerose da farla apparire come il riccio di una castagna, poi le telecamere si soffermano su un panorama agghiacciante. La superficie della Luna è ricoperta da scheletri umani, migliaia, forse milioni di scheletri, sparsi e ammucchiati dappertutto.

Quali sono le ragioni dell’immensa strage?

L’elaboratore di bordo ci trasmette i dati inconfutabili di un’eruzione solare d’inaudita potenza, avvenuta cinquant’anni prima, che ha spazzato via l’intera civiltà umana sulla Terra e sulla “nave spaziale Luna” che forse voleva allontanarsi proprio per evitare le conseguenze mortali di quel fenomeno. Col passare dei millenni i raggi cosmici avevano poi eroso e polverizzato quei poveri resti finché nella nostra epoca non ne era rimasta traccia.  Il lungo e costante bombardamento dei meteoriti aveva infine reso irriconoscibili quelli che un tempo remoto erano stati manufatti umani.

Volgiamo le telecamere di ricognizione verso la Terra, su un panorama di devastazione. Gli edifici appaiono fusi dalla potenza dell’eruzione solare. Non vi sono sopravvissuti.

«Se l’umanità intera si è estinta dieci milioni di anni fa chi sono dunque i nostri antenati?» è la mia prima domanda che tuttavia rimane senza risposta perché ben presto la labrys si manifesta di nuovo e, trasformatasi in una singolarità, ci attrae al suo interno, sino a farci emergere ancora una volta dal Polo Nord, “appena” un milione di anni prima della nostra era. La Terra appare verde e rigogliosa ma non vi è segno di attività umana, mentre la Luna è poco differente da quella che conosciamo ai nostri tempi. Poi i sensori di bordo segnalano un’anomalia. In coda alla nostra astronave ne appare un’altra, emersa anch’essa dal Polo Nord che si era aperto come il diaframma di una fotocamera. La nave però non ci segue ma cambia rotta e discende sulla Terra, e dopo di essa, scaturiscono dallo stesso passaggio altre decine di astronavi di forma diversa l’una dall’altra che eseguono manovre analoghe. Ognuna di esse atterra in un punto diverso della superficie emersa della Terra ma alcune s’immergono nelle distese marine.

«E’ la vita intelligente che ritorna sulla Terra», dice Edward. «La Terra è il centro di un labirinto spaziale verso il quale tendono tutte le anime della Galassia. Per questo motivo la vita su di essa è così potente, molteplice, ridondante, inestinguibile. Per una civiltà evoluta è facile imbattersi in questo labirinto e ogni civiltà lascia il suo segno sul pianeta Terra che è un crocevia cosmico.»

«Noi uomini quindi non siamo figli di questo pianeta», rispondo con sconcerto.

«No, Lucio, non lo siamo» ribadisce Edward, «siamo figli del cosmo che è intelligenza, ed è l’intelligenza il propellente di cui l’Universo non può fare a meno, pena la sua scomparsa. Siamo noi esseri pensanti a dargli significato e a far sì che esso si manifesti in ogni momento della nostra esistenza. Ciò che ha visto la sonda Spes Prima differiva da ciò che abbiamo percepito noi, poiché non essendo un essere pensante, non dava significato ai dati che riceveva. Solo l’uomo può trascendere questi dati poiché possiede un’anima che è in contatto, in maniera profonda, con le miriadi di anime che abitano il cosmo.»

«Pensi che quello che abbiamo percorso sia l’unico labirinto o che ne esistano altri?»

Edward guarda fuori dall’oblò dell’astronave. Il suo sguardo stenta a trovare un punto sul quale concentrarsi. Poi il suo viso s’illumina: «Il cosmo nella sua immensa complessità è formato da una moltitudine di labirinti, così come multiformi sono i labirinti della mente umana che in esso si proietta esprimendosi nella poliedricità, ma anche nell’unità. Per questo motivo ciò che è in basso è come ciò che è in alto e ciò che è in alto è come ciò che è in basso per fare il miracolo della cosa una. L’universo è come un libro che ogni essere pensante elabora attraverso i labirinti della propria mente, unici e irripetibili che s’incrociano con quelli di altri esseri senza entrarvi in collisione, anzi si esalta, si moltiplica, diviene polimorfo, a tratti monocentrico, a tratti policentrico, ma sempre indefinitamente labirintico. Ogni labirinto costruisce, in ogni istante, una propria struttura che nella con-fusione crea e distrugge. Lo spirito si perde ma nel perdersi si espande e accede a nuove dimensioni.»

Il mio ultimo sguardo è rivolto alla Terra, prima di essere risucchiati dall’ultima singolarità ed essere restituiti, oltre l’ultimo orizzonte degli eventi, alla nostra realtà.

 

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