LABIRINTI COSMICI
di Mario Farneti
d
“Confusione… Confusione… mi
dispiace se sei figlia della solita illusione e se fai confusione… Confusione…
Tu vorresti imbalsamare anche l’ultima e più piccola emozione… Confusione…”
Il fading fa svanire le ultime parole
della canzone di Lucio Battisti e dall’altoparlante del radioricevitore UHF
dell’astronave emerge prepotente il rumore di fondo, uno scroscio asemico dal
quale qualche scienziato paranoico aveva invano cercato di discernere il
messaggio intelligente di qualche specie aliena. Tuttavia nessun alieno aveva
mai pensato di inquinare la purezza dell’etere con un segnale spurio che con la
sua consistenza creasse distonia nell’ineffabile, intelligente cristallinità
dell’Universo.
E’ l’anno 80 dalla Fondazione
dell’Impero, mi chiamo Lucio Nevio Mandelli, capitano di vascello dell’Armata
Spaziale d’Occidente, secondo in comando
dell’astronave fotonica Ultima Spes
che ha superato il confine del Sistema Solare procedendo a una velocità di
centocinquantamila chilometri al secondo e, attraversata la
Fascia di Kuiper,
ha raggiunto le propaggini della Nube di Oort, generatrice di comete. Abbiamo
intrapreso un viaggio verso un mondo nuovo o, forse, un Nuovo Mondo.
Alcuni anni prima la sonda automatica
Spes Prima ci aveva preceduto in
quel quadrante della Galassia con un viaggio di esplorazione all’interno di una
singolarità e, con grande sorpresa, era ritornata sulla Terra appena un mese
dopo il suo lancio, riportandoci una mappa dell’universo esplorato che destò
l’interesse degli scienziati. Il disegno emerso era quello di un labirinto
cosmico cui si accedeva attraverso una serie continua e uniforme di singolarità.
Sembrava che tutto fosse regolato da una logica cui la sonda non riuscì a
sfuggire e che la riportò in maniera del tutto inattesa nel luogo di origine.
Era come l’invito di un’intelligenza aliena a percorrere le vie di un labirinto
regolato da una legge universale che con quel fatto aveva voluto dare
testimonianza di esistere.
Era davvero una legge universale
o solo un tentativo di confondere i sensi di una specie involuta come quella
umana? A noi era toccato verificare se la serie di singolarità costituiva l’atto
volontario di una mente intelligente, oppure se era frutto di casualità. La
nostra poteva essere una missione senza speranza di ritorno, non soltanto a casa
ma nelle nostre menti, nella nostra esistenza. Rischiavamo di perderci per
sempre in un limbo privo di dimensioni e di ragione, noi che pretendevamo di
spiegare ogni cosa con il calcolo e con la ragione.
Il “buco nero”
è davanti a noi, nei pressi della
Madre di tutte le comete, nel quadrante della Galassia segnalato dalla
sonda. L’astronave riduce la velocità fino ad azzerarla a una distanza di mezzo
milione di chilometri. L’elaboratore di bordo ne misura il diametro: appena
diecimila chilometri. Entriamo in una posizione di stallo. Basterebbe un piccolo
balzo in avanti per essere risucchiati da quel
nulla che attrae dentro di sé ogni
brandello di materia, finanche la luce; seducente come una sirena muta che,
tuttavia, cattura con la sua fascinazione ogni essenza che si avvicini a lei. Ci
stritolerà? Non lo sappiamo. Sappiamo soltanto che la sonda
Spes Prima l’ha attraversato e ne ha
fatto ritorno, intatta, sulla Terra, ma non conosciamo quale sarà l’effetto
sugli esseri viventi.
Naomi Eshel, colonnello della
Heyl Ha'Avir
del Grande Israele, comandante
della missione ordina a Steve Collins l’ufficiale di rotta dell’Armata Spaziale
USEast d’inserire i dati registrati anni prima dalla sonda. Qualche minuto, poi
il pilota Ivan Karpov della Federazione Russa Occidentale inizia la sequenza di
avvio dei motori fotonici a raggi laser.
In quegli attimi d’incertezza,
ripenso all’incontro con l’Imperatore, avvenuto poco prima della partenza per la
missione. Il sovrano mi aveva ricevuto in udienza privata a Roma sul Palatino e
si era congratulato con me per essermi offerto volontario. Era fiero che un
militare di alto grado dell’Impero d’Occidente partecipasse a una ricerca
ritenuta dalla scienza ufficiale “di confine”. Fu in quell’occasione che conobbi
Edward Lattanzi, l’astrofisico che avrebbe fatto parte dell’equipaggio. Era un
italo-americano di trentacinque anni, laureato al MIT ma perfezionatosi al
Dipartimento di Astrofisica dell’Università “Roma Imperiale”.
«Motori allineati» sentenzia
Karpov. «Siamo pronti al balzo. »
Helen attiva il conto alla
rovescia fissandolo a meno dieci
secondi. Il lettore numerico inizia la sequenza e, giunto a zero, sfrecciamo
verso il buco nero entrando sull’orizzonte
degli eventi dopo tre secondi e trecentotrentatré millesimi.
All’improvviso il buio
s’impossessa di ogni cosa, ma per pochi millesimi di secondo o forse per milioni
di anni, concentrati in un non-tempo. Neanche un respiro e veniamo proiettati in
un altro universo… o almeno è quello che crediamo in quei primi attimi di
smarrimento. L’elaboratore di bordo stabilisce la posizione: cinquantamila
chilometri dal pianeta Terra in allontanamento. Calcoliamo il punto d’ingresso
ed esso combina esattamente con il centro della Calotta Polare… il Polo Nord, ma
nel punto dell’universo dove la Terra si
trovava settanta milioni di anni prima della data di partenza.
Il dato appare incredibile perciò
lo confrontiamo con quelli raccolti dalla sonda
Spes Prima. Ci accorgiamo che i dati
originari si sono misteriosamente modificati aderendo alla perfezione a questa
nuova realtà.
Il comandante ordina l’inversione
di rotta verso “quella” Terra per indagare sul paradosso di cui siamo testimoni.
Tale almeno ci appare all’inizio. Entriamo in orbita intorno al pianeta e
attiviamo le telecamere di ricognizione. L’elaboratore di bordo opera un
raffronto tra la massa continentale di allora e quella attuale, ma conclude che
non c’è alcun rapporto. L’estensione delle terre emerse differisce del tutto
dall’attuale e non è possibile eseguire alcuna proiezione che riconduca a quella
forma. Poi l’ufficiale di rotta rileva un segnale radio proveniente da un’isola
sperduta in un immenso oceano, molto simile a quello di un radiofaro. Ha origine
da una struttura simmetrica, un evidente manufatto umano; un manufatto all’epoca
dei dinosauri! E’ un edificio a pianta ottagonale al centro di una vasta radura
che emerge dalla jungla. La sua estensione supera quella di una media metropoli
del mondo occidentale. E’ costituito da una sequenza di costruzioni senza
soluzione di continuità geometricamente giustapposte.
Poi la telecamera individua la
presenza di uomini. Uomini come noi, nati settanta milioni di anni dopo. La
scoperta capovolge la nostra visione del mondo. Infine la cosa più sconvolgente:
le telecamere di bordo scandagliano lo spazio intorno alla Terra, inutilmente
alla ricerca della Luna. Lo spazio in prossimità della Terra è vuoto. La teoria
che voleva la Luna nata dalla Terra è perciò priva di fondamento. Cerchiamo di
metterci in contatto radio con gli abitanti di quella strana costruzione, ma le
gamme di frequenza sono pulite, tranne quell’unico segnale radio, finché un
raggio laser a bassa potenza esce dal centro della struttura e inquadra
l’astronave per una frazione di secondo. Poi più nulla. In quell’istante
l’elaboratore di bordo segnala un messaggio in ingresso che decodifica e
diffonde attraverso l’altoparlante: è musica. Una musica ineffabile che supera
qualsiasi intuizione umana, poi all’improvviso avvistiamo un vascello spaziale –
o almeno tale appare ai nostri occhi – di una forma che dapprima scambiamo per
una farfalla, ma poi ci accorgiamo essere una
labrys, la scure bipenne. Mi torna in
mente il palazzo di Cnosso a Creta, chiamato dagli storici
il palazzo delle labrys, cioè
il labirinto. Il vascello spaziale si
ferma a cinquecento chilometri da noi e diventa incandescente, poi le due lame
iniziano a roteare creando una forma circolare che, al culmine
dell’incandescenza diventa oscura formando un nuovo
buco nero sempre più grande e
potente, tanto da tirarci dentro in una frazione di secondo. Riemergiamo ancora
dal Polo Nord nei pressi della Terra, stavolta però in un’epoca più recente:
trenta milioni di anni prima della nostra era.
Invertiamo la rotta e ed entriamo
in orbita intorno al nostro pianeta. Ci troviamo al centro di un paradosso
inestricabile, a ogni passaggio riemergiamo sempre dalla Terra come se fosse il
centro di un labirinto spaziale dal quale non si può sfuggire. I dati ricevuti
dalle telecamere di ricognizione sono ancora una volta sbalorditivi. A
duecentomila chilometri dalla nostra posizione una semisfera occupa la posizione
della Luna. I sensori la identificano come una struttura metallica di una lega
sconosciuta. Intorno al grande impianto si avvicendano astronavi di forma
oblunga, provenienti dalla Terra che sembrano trasportarvi materiali e uomini.
Ci avviciniamo fino a cinquantamila chilometri di distanza ma in quell’istante
veniamo circondati da una flottiglia di aeronavi discoidali. Operiamo una
manovra di sganciamento e, grazie ai potenti motori fotonici, raggiungiamo in
pochi secondi una distanza di seicentomila chilometri.
Chiedo una spiegazione a Edward
ma la risposta è laconica: «Non c’è dubbio che la Luna sia un corpo artificiale,
costruito in orbita da una civiltà umana ben più evoluta della nostra attuale.
La nostra Luna è il rudere di una costruzione ardita ideata da mente umana.»
La mia incredulità è vinta solo
dall’evidenza.
«Quello che dici ha
dell’incredibile ma qual è lo scopo di questa opera gigantesca?»
«Sembra un’astronave destinata a
trasportare nello spazio milioni di esseri umani. Potrebbe trattarsi della
migrazione di un’intera civiltà verso un altro pianeta», afferma Edward.
«Una migrazione fallita»,
rispondo io, «poiché la Luna non si è mai mossa dall’orbita terrestre…»
«Sempre che questa sia la
nostra Luna…»
«Vuoi dire che questa civiltà è
specializzata nella costruzione di… lune?»
«Non posso escluderlo…»
In quell’attimo un allarme
risuona nella cabina di comando. Poco distante da noi appare ancora una volta
un’enorme labrys che inizia anch’essa
a roteare fino a diventare incandescente e a collassare in un buco nero. Ancora
una volta, veniamo attratti all’interno e riemergiamo dal Polo Nord. Sotto di
noi la Terra ha un’atmosfera densa e giallastra. L’elaboratore di bordo
sentenzia che ci troviamo a meno dieci milioni di anni dalla nostra era. Tutti i
vulcani della Terra sono in eruzione e una nebbia pesante oscura i continenti.
Puntiamo le telecamere verso la
Luna ma i dati ricevuti ci dicono che quella non è la stessa Luna di venti
milioni di anni prima.
«E’ come sospettavo», dice
Lattanzi. «La prima Luna era un’astronave che ha lasciato l’orbita terrestre,
trasferendo milioni di coloni su un altro pianeta, forse attraverso lo stesso
passaggio usato da noi per giungere sin qui. Questa invece è una nuova
struttura, differente dall’altra. Infatti, ha un diametro più piccolo benché
l’orbita sia la stessa.»
Ci avviciniamo al corpo celeste.
Dalla superficie si elevano guglie alte
cento chilometri e più, così numerose da farla apparire come il riccio di una
castagna, poi le telecamere si soffermano su un panorama agghiacciante. La
superficie della Luna è ricoperta da scheletri umani, migliaia, forse milioni di
scheletri, sparsi e ammucchiati dappertutto.
Quali sono le ragioni
dell’immensa strage?
L’elaboratore di bordo ci
trasmette i dati inconfutabili di un’eruzione solare d’inaudita potenza,
avvenuta cinquant’anni prima, che ha spazzato via l’intera civiltà umana sulla
Terra e sulla “nave spaziale Luna” che forse voleva allontanarsi
proprio per evitare le conseguenze mortali di quel fenomeno. Col passare
dei millenni i raggi cosmici avevano poi eroso e polverizzato quei poveri resti
finché nella nostra epoca non ne era rimasta traccia.
Il lungo e costante bombardamento
dei meteoriti aveva infine reso irriconoscibili quelli che un tempo remoto erano
stati manufatti umani.
Volgiamo le telecamere di
ricognizione verso la Terra, su un panorama di devastazione. Gli edifici
appaiono fusi dalla potenza dell’eruzione solare. Non vi sono sopravvissuti.
«Se l’umanità intera si è estinta
dieci milioni di anni fa chi sono dunque i nostri antenati?» è la mia prima
domanda che tuttavia rimane senza risposta perché ben presto la
labrys si manifesta di nuovo e,
trasformatasi in una singolarità, ci attrae al suo interno, sino a farci
emergere ancora una volta dal Polo Nord, “appena” un milione di anni prima della
nostra era. La Terra appare verde e rigogliosa ma non vi è segno di attività
umana, mentre la Luna è poco differente da quella che conosciamo ai nostri
tempi. Poi i sensori di bordo segnalano un’anomalia. In coda alla nostra
astronave ne appare un’altra, emersa anch’essa dal Polo Nord che si era aperto
come il diaframma di una fotocamera. La nave però non ci segue ma cambia rotta e
discende sulla Terra, e dopo di essa, scaturiscono dallo stesso passaggio altre
decine di astronavi di forma diversa l’una dall’altra che eseguono manovre
analoghe. Ognuna di esse atterra in un punto diverso della superficie emersa
della Terra ma alcune s’immergono nelle distese marine.
«E’ la vita intelligente che
ritorna sulla Terra», dice Edward. «La Terra è il centro di un labirinto
spaziale verso il quale tendono tutte le anime della Galassia. Per questo motivo
la vita su di essa è così potente, molteplice, ridondante, inestinguibile. Per
una civiltà evoluta è facile imbattersi in questo labirinto e ogni civiltà
lascia il suo segno sul pianeta Terra che è un crocevia cosmico.»
«Noi uomini quindi non siamo
figli di questo pianeta», rispondo con sconcerto.
«No, Lucio, non lo siamo»
ribadisce Edward, «siamo figli del cosmo che è intelligenza, ed è l’intelligenza
il propellente di cui l’Universo non può fare a meno, pena la sua scomparsa.
Siamo noi esseri pensanti a dargli significato e a far sì che esso si manifesti
in ogni momento della nostra esistenza. Ciò che ha visto la sonda
Spes Prima differiva da ciò che
abbiamo percepito noi, poiché non essendo un essere pensante, non dava
significato ai dati che riceveva. Solo l’uomo può trascendere questi dati poiché
possiede un’anima che è in contatto, in maniera profonda, con le miriadi di
anime che abitano il cosmo.»
«Pensi che quello che abbiamo
percorso sia l’unico labirinto o che ne esistano altri?»
Edward guarda fuori dall’oblò
dell’astronave. Il suo sguardo stenta a trovare un punto sul quale concentrarsi.
Poi il suo viso s’illumina: «Il cosmo nella sua immensa complessità è formato da
una moltitudine di labirinti, così come multiformi sono i labirinti della mente
umana che in esso si proietta esprimendosi nella poliedricità, ma anche
nell’unità. Per questo motivo ciò che è
in basso è come ciò che è in alto e ciò che è in alto è come ciò che è in basso
per fare il miracolo della cosa una. L’universo è come un libro che ogni
essere pensante elabora attraverso i labirinti della propria mente, unici e
irripetibili che s’incrociano con quelli di altri esseri senza entrarvi in
collisione, anzi si esalta, si moltiplica, diviene polimorfo, a tratti
monocentrico, a tratti policentrico, ma sempre indefinitamente labirintico. Ogni
labirinto costruisce, in ogni istante, una propria struttura che nella
con-fusione crea e distrugge. Lo spirito si perde ma nel perdersi si espande e
accede a nuove dimensioni.»
Il mio ultimo sguardo è rivolto
alla Terra, prima di essere risucchiati dall’ultima singolarità ed essere
restituiti, oltre l’ultimo orizzonte
degli eventi, alla nostra realtà.
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